
L'uomo che visse nel futuro
Thank you Steve, goodbye and rest in space.
Cinque ottobre duemilaundici.
Il breve scritto che segue non è il tipico coccodrillo di commiato e non intende affatto raccontare per l'ennesima volta di schede perforate e vecchi garage. Non parla affatto di Steve e Woz, della Xerox o del celebre spot pubblicitario mandato in onda durante il Super Bowl. Non ambisce certo a sintetizzare l'evoluzione del mondo dell'informatica dai settanta fino ad oggi e, a dirla tutta, non citerà neppure il fin troppo abusato mantra "Siate affamati, siate folli."
Lo scritto che segue vuole solamente essere un saluto a Steve Jobs, il genio visionario di Apple che si è spento due giorni or sono, all'età di cinquantasei anni. Un immenso grazie e poco altro ancora, insomma, che viene da un sito di videogiochi e anche un po' dal cuore, perchè in fondo è ancora bello poter pensare che certe macchine abbiano un'anima, o che perlomeno non vadano in crash come un qualsiasi altro computer di bassa lega. In particolare, è lo scritto di un integralista della mela – nessun pudore nell'ammetterlo – che per lo stesso maledetto e rapidissimo killer aveva già perso un grande amico (che nell'economia degli affetti personali sarà sempre più importante di un CEO), mentre adesso guadagna persino un nuovo mito da celebrare lassù.
Un mito che non è soltanto un'idea o un concetto, quanto piuttosto l'esigenza di significare una forma, precisamente quella della proverbiale mela morsicata con fondo arcobaleno. Un mito che è una parola, un sistema di comunicazione, un messaggio creativo, una piattaforma globale, avida perfezione future proof. Ma, soprattutto, un mito sa perfino immobilizzare il mondo e può fermare addirittura tutta l'America. Non è altro che una sollecitazione incessante e instancabile; è questa inflessibile esigenza secondo cui tutti gli uomini potrebbero un giorno riconoscersi in quell'immagine eterna e visionaria, stretta in un paio di jeans e un lupetto nero, e che di essi è stata un giorno costruita come se fosse destinata a valere per sempre. Trasformando i bit in accessibilità, il design in strumento, la complessità in un'App per tutto, la tecnica in progresso e la stessa storia in natura, esso non si definisce più dall'oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui lo ha sempre proferito: con un keynote o con la naturalezza d'un gesto sul touch screen. Possiede un senso che è già completo, insomma, perché postula un sapere, un passato, una memoria e un complesso ordine di fatti, idee, decisioni.
Ecco cosa c'è nel mito di Steve Jobs, allora: una furibonda collusione tra il tempo indicativo e l'ottativo (il modo del desiderio e della potenzialità), l'impossibile e pur attuabile trasformazione del desiderio in innovazione, del passato in progresso, e per dir tutto un certo fascino che appartiene all'ordine del prodigioso. Sempre una spanna al di sopra di un presente che resiste arrancando, che continuamente s'inceppa e che nemmeno con un riavvio o con l'uscita forzata potrebbe mai farcela. Addirittura, nell'informatica oltranzista, il suo verbo manterrà per sempre una funzione totalitaria: non soltanto ordinerà il sistema operativo del mondo, ma esprimerà e poi imporrà, quasi allo stesso modo d'ogni altro mito superiore, la sua funzione fondamentale: colmare il divario che ancora intercorre tra la più semplice ragionevolezza delle cose e l'innovazione tecnologica. Assimilato nel cosmo infinito come pura energia, Steve Jobs, ovvero l'uomo che visse nel futuro, si ritroverà dunque quale ultimo mito di una una stirpe celeste. Una razza fittizia che trarrà le sue particolarità dalla propria ascesi nel cosmo, per realizzare così una sorta di compromesso antropologico tra gli esseri umani e i marziani.
Scritto con un Mac.