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PRIMA POSIZIONE
Almeno un paio di sfumature di nero.
L.A. Noire
(Rockstar, 2011)
Tutti quelli che in L.A. Noire si sono annoiati ai primi omicidi, che hanno abbandonato il gioco dicendo che era tutto uguale, che visto un accusato che fa le faccette li hai visti tutti, non lo sanno. Ma il titolo Rockstar a un certo punto cambia passo non solo nella complessità delle indagini e nel numero di soggetti interessati dalle stesse, ma anche e soprattutto in termini di trama. Quello che non hai potuto scrivere per non rovinare la sorpresa a nessuno, quando ti sei occupato della recensione del gioco un mesetto fa, è che tutto l'ultimo terzo dell'avventura sviluppata da Team Bondi è una grandissima opera di depistaggio condotta ai danni del giocatore. Sei lì che ti chiedi perché questo Cole Phelps, questo ex eroe di guerra, questo detective precisino con la faccia da detective precisino non ti dica nulla, quando il gioco ti sostituisce a tradimento il protagonista. Nei flashback bellici e in quelli sul traffico di droga innescati dai giornali, infatti, Phelps scivola pian piano sullo sfondo.
Non è la persona tutta d'un pezzo che credevi, scopri, perché tradisce la moglie con quella cantante tedesca. Non è neanche un eroe di guerra, perché si è ritrovato con una medaglia al petto che non meritava e ha fatto uccidere un sacco di persone innocenti. Non è neanche il tizio romantico, l'Humphrey Bogart tormentato che a un certo punto L.A. Noire ti fa vedere in lui. Quando appoggia Elsa contro un muro, sul retro del club, per conoscerla in senso biblico così come viene, Phelps cala finalmente la maschera: è solo uno stronzo come tanti.
L'eroe è quell'altro, la testa calda Jack Kelso. È Kelso che salvava le vite nell'inferno di Okinawa, che non si tira indietro per aiutare i suoi vecchi compagni finiti nei casini, che quando ha a portata di mano l'occasione per fare un sacco di soldi preferisce restarne fuori, restare pulito.
Sai benissimo che L.A. Noire è un gioco di Team Bondi, scritto dal suo capoccia Brendan McNamara. Ma visto che non sapremo mai quanto effettivamente Rockstar abbia messo mano al gioco (perché l'ha fatto) e influito sulla storia e i suoi personaggi (perché l'ha fatto. O altrimenti staremmo parlando di un altro The Getaway), ti piace pensare L.A. Noire come un'altra tappa nel percorso intrapreso da Rockstar verso la maturità. Sua, delle sue storie, dell'intero genere. Prima i criminali ammiccanti e tamarri, poi il pistolero che redento non può sfuggire al proprio passato, infine l'eroico protagonista che non solo non è un eroe, ma - con agile mossa tentata prima d'ora solo da Ciccio Kojima - non è neanche il vero protagonista. E che alla fine quell'ondata di piena nelle fogne si porta via, affidando quanto ne resta a un funerale officiato dal peggior stronzo corrotto di tutto il reparto. Ma tu pensa.
A quel funerale Jack Kelso è seduto in fondo. È lui il buono, l'eroe. Anche se tutti quelli che L.A. Noire l'hanno giocato solo fino a un certo punto perché poi tanto è uguale non lo sanno mica.