
Videodrome
Si fa sul serio
Mazzate senza senso a ritmo di musica.
Dunque, con il suo film d'esordio, Paul William Scott Anderson ha mostrato di essere un autore interessante, che potrebbe far parte della rombante carica di registi britannici in divenire. Ma si rischia di equivocare, di scambiarlo per qualcuno che non è. A Paul non interessa vincere l'Oscar e spararsi le pose da autore impegnato con la barbetta come gli altri due Anderson che esordiranno mano nella mano nel 1996. Quel ruolo lo lascia a Danny Boyle, che sta per l'appunto preparando Piccoli omicidi fra amici. No, a Paul interessano le cose rumorose. Bisogna lanciare un messaggio chiaro.
Mortal Kombat (1995)
Quando sono andato a vedere Mortal Kombat al cinema ero un sedicenne in piena crisi ormonale, ancora ingenuamente convinto che si potessero tirare fuori film decenti dai videogiochi. Il film arrivava dopo una forte campagna pubblicitaria ed era riuscito a creare un'attesa mica da ridere. Quindi mi presento in sala tutto gasato, si spengono le luci, parte fortissima la musica da discoteca mentre ancora sta frullando il logo New Line e in sala si scatena il delirio. In tutta franchezza, a quell'età, un anno dopo la tristezza di Street Fighter, ritrovarsi in una sala milanese col tutto esaurito, strapiena di gente gasata che urlava, sbraitava, applaudiva, a guardare il film di Mortal Kombat... cosa chiedere di più? Ma del resto, “cosa chiedere” è un po' la chiave del film, oltre che, volendo, dell'intera filmografia del caro Paul. Se quello che si cerca è un bel film solido, scritto come si deve, con magari anche una profonda indagine sulla natura del conflitto umano e sulla filosofia alla base delle arti marziali antiche e moderne, eh, si rischia di rimanere delusi. Ma aspettarsi qualcosa di più che un'adorabile sciocchezzuola ammiccante dal film ispirato a uno fra i videogiochi più trash e iperviolenti della storia è delirante. Paul lo sa, non si imbarca in riletture da spy story con Kristin Kreuk e butta giù un semplice carrozzone in cui la “trama” è solo una scusa per mettere in fila una serie di tizi che si menano forte e quante più citazioni a caso dai videogiochi gli riesca.
E così ci si ritrova col campionato interdimensionale delle mazzate, in cui i mondi lottano fra loro e chi vince per dieci volte di fila ha lo ius primae noctis su tutte le donne del pianeta sconfitto. O qualcosa del genere. I cattivi sono cattivi e, conseguentemente, barano, con il loro capetto che organizza tutto come il Moggi dei bei tempi. Da una parte mette i suoi ragazzi, talmente dopati che lanciano i raggi congelanti, hanno gli artigli nelle mani e uno ha quattro braccia. Dall'altra raccatta gente che sa “solo” menare, senza neanche spiegar loro il vero motivo per cui si ritrovano a prender ceffoni in Thailandia. Non bastasse tutto questo, ci sono pure gli atti di nonnismo, con la cena sontuosa la sera prima del torneo interrotta brutalmente solo per far vedere a tutti quanto è cattivo Sub-Zero. Ma per fortuna i buoni hanno dalla loro il dio dei tuoni e fulmini, il prescelto e due tizi con l'anima molto forte. Il dio è un Christopher Lambert che aveva bisogno di soldi, era il nome più importante che si potevano permettere e alla fin fine fa il suo dicendo solo cretinate, apparendo in momenti a caso del film e divertendosi palesemente come uno scemo. Il prescelto è Robin Shou, ovvero un orientale alto, dal fisico tirato, che salta, mena e fa decisamente la sua figura al confronto dei compari. Che sono la Bridgett Wilson pre-Sampras, una talmente impacciata che ogni volta che tira un calcio casca per terra, e Linden Ashby, uno che su Wikipedia dicono sappia le arti marziali, ma per tutto il film non ha mai il coraggio di levarsi la camicia e mostrare le maniglie dell'amore.
Prendete tutto questo, infilateci dentro un po' di effetti speciali pupazzosi, della computer grafica talmente pacchiana da far tenerezza, un sacco di gente muscolosa mascherata che fa le piroette, combattimenti su combattimenti messi l'uno dietro l'altro e l'idea all'epoca addirittura innovativa di infilare la musica da discoteca in un film di mazzate. Ecco a voi Mortal Kombat. Un film che a riguardarlo oggi non è cambiato per niente: trash ora come allora, ma scorre via come una leggera brezzolina e rimane di fatto un ottimo esempio di trasposizione che abbraccia l'anima vera della fonte, anche se rinuncia a un pizzico di fedeltà nello schivare la componente più trucida e sanguinaria del videogioco. All'epoca fu anche un bel successo di pubblico, soprattutto in rapporto al budget, tale da generare un seguito e un telefilm impresentabili, oltre che lanciare la prima fase della carriera di Paul. Quella dell'indecisione e della china discendente.